La violenza contro le donne nei Cie. Un fatto “privato”

La drammatica vicenda di Joy e Hellen

di Cristina Morini

Ci sono cinque donne. Si chiamano Joy, Hellen, Florence, Debby e Priscilla. Hanno partecipato, quest’estate, alla rivolta scoppiata nel Cie di via Corelli a Milano. Joy ed Hellen denunciano poi un tentativo di stupro da parte del vicequestore, Vittorio Addesso. Si sta aspettando la loro scarcerazione dalla casa circondariale di Como, il 12 febbraio prossimo. Il timore (assai fondato) è che, uscite di lì, possano finire, di nuovo, in un altro Cie. L’appuntamento, per tante, è dunque fissato, il 12, davanti al carcere di Como, per aspettarle. Improvvisamente, arriva la notizia che Joy ha ricusato l’avvocato che la seguiva sin dall’inizio nel processo d’appello per la rivolta di Milano e nella denuncia per tentata violenza sessuale. Joy ha ritenuto di affidarsi all’avvocato d’ufficio. L’avvocato d’ufficio è un personaggio che, di solito, nei film, si alza in piedi e dichiara: “Mi appello alla clemenza della corte”. Sarà impazzita, Joy, o qualcosa – qualcuno ‒ l’ha indotta ‒ convinta ‒ a fare tale scelta? E perché?

Questa storia brutta è utilissima per riflettere sul tema della violenza sulle donne migranti, nei Cie, in termini generali. Che cosa siano lager come i Cie, a che cosa porti l’introduzione di un abominio giuridico come il “reato di clandestinità” non c’è bisogno di spiegarlo a chi legge queste righe. Ma forse va riflettuta meglio la contraddizione palese di una società che non ha ancora risolto il nodo privato/pubblico. Questo Paese ci appare perfettamente femminilizzato. Nei giornali, sul lavoro, in politica la differenza femminile sembra rappresentare la cifra costituente di ogni recesso del reale: eccole le donne, finalmente fuori dal privato, protagoniste dello spazio pubblico. Si ritorna, però, al problema del privato e del pubblico quando vengono allo scoperto le scappatelle sessuali di un Premier imbarazzante (altri casi si aggiungeranno, uno più incredibile dell’altro). All’istante, si riassegnano i ruoli (lui il potente, lei la vittima, la poverella, la dannata) e con essi le lamentazioni, le indignazioni, la rabbia. Seguono serrate discettazioni che servono a dire che chi è pubblico deve fare ben attenzione al privato. Si ricorda l’insegnamento del femminismo.

Che cosa accade, però, quando i corpi sessuati (femminili) in questione sono quelli delle immigrate straniere chiuse nei Cie? Non è difficile immaginare che essi potranno dover subire, nell’anomia e “informalità” consentita dal lager, molti soprusi e abusi, anche di carattere sessuale. Altro che “papi”. Nel chiuso di un luogo che lo Stato si è dato per difendere soprattutto la “sicurezza” di altre donne (le “native”, serie A), il tema non diventa pubblico, non crea particolare scandalo né suscita alcun appassionato dibattito. Fatica a uscire da uno spazio recintato (risbuca il “privato”, nel suo significato autentico e originario) che genera dominio e dipendenza, non assume la dignità politica di una battaglia imprescindibile per chi, tra le donne, nel femminismo, sta ben salda nel “pubblico” dei giornali e delle università.

Francamente, che libertà, che diritti, che futuro possono essere dati, davvero, per le donne, se si tace su questo circuito osceno, che altre donne (serie B) sono costrette a sopportare? Non è forse questa – e non altre ‒ la vera essenza del dilemma privato/pubblico che andrebbe sviscerato (aggiornato), di questi tempi? Non è per questo che vale la pena di indignarsi, di sentirsi offese?

Tratto dal sito: Globalproject.info

[ lunedì 8 febbraio 2010 ]