Roma 14 dicembre: un racconto da Brescia

Anche noi ci siamo messi in marcia, nel mezzo del corteo, insieme ad almeno centomila persone, verso piazza Venezia, lungo il perimetro della zona rossa creata attorno ai palazzi del potere da un dispositivo di chiusura enorme e ostentato, fatto di mezzi blindati di ogni genere e da numerosi reparti di forze dell’ordine in assetto antisommossa.
Presto abbiamo cominciato a sentire in lontananza gli scoppi ripetuti dei petardi e delle bombe carta, i rumori degli scontri fra i manifestanti e la polizia che sbarrava la strada. Gli scontri coinvolgevano ampi e diversi spezzoni della manifestazione più avanti di dove eravamo noi e hanno punteggiato l’intero tragitto del corteo, fino alla fine, a piazza del popolo.

In continuazione, durante tutta la manifestazione, ho visto susseguirsi gruppi di centinaia di studenti e studentesse, universitari e anche medi, molti muniti di casco, che, mentre la tensione era già altissima e il confronto con le forze dell’ordine in atto, affrettavano il passo ai lati del corteo e si facevano largo fra la folla proprio per raggiungere le zone più avanzate della manifestazione.

Fra gli altri manifestanti intorno a noi, che sentivano e capivano gli scoppi e i rumori di quel che stava accadendo più in là, che restavano fermi e calmi in attesa che il corteo potesse riprendere il proprio cammino, non ho visto, a differenza di tante altre volte, nemmeno una persona che esprimesse in qualche modo, nelle parole o nei gesti, preoccupazione per le sorti politiche della manifestazione o disappunto verso altri manifestanti per quanto stava accadendo, per i tentativi di aprire la zona rossa creata dai contingenti di polizia.
Era come se, senza nemmeno la necessità di dirlo, fosse sentimento comune il considerare condivisibile, o almeno stavolta giustificabile e motivato, quanto in altre zone della manifestazione si stava facendo per aprire la strada, o per dare un segno forte di indignazione, di rabbia, di sfiducia radicale. Un sentimento comune che nemmeno poi, con la notizia della nuova fiducia data dal Parlamento al governo Berlusconi, ho visto soccombere alla delusione, l’ho visto anzi crescere nei movimenti del corteo, nei gesti, nelle espressioni dei volti delle persone, che a me è sembrato trasmettessero molta più incazzatura e determinazione che esasperazione nervosa.

Già mentre i fatti erano in atto nelle strade di Roma e rubavano un po’ di scena alle manfrine molto più interessate che interessanti della Politica, hanno cominciato a piovere i commenti e le analisi di acuti commentatori e portavoce. Le contrapposizioni tra i poli parlamentari si sono sciolte d’incanto e hanno lasciato il posto all’unanime condanna dei soliti pochi facinorosi violenti. I black block, gli autonomi dei centri sociali infiltrati fra gli studenti e via dicendo. E in più, se si gradisce, qualche agente provocatore mandato da Maroni fra i manifestanti.
Ecco tutto spiegato, compreso l’epilogo di piazza del popolo. Spiegazione interessata solo a trovare una scorciatoia comodissima per arrivare a rimuovere tutto in fretta, a poter dire “tranquilli, non è successo niente, va tutto bene”, sia dal punto di vista del governo che delle opposizioni, le quali viste da se stesse non possono che svolgere a meraviglia la funzione di rappresentare quel che si muove e si vuole dentro la realtà sociale.
Queste cose sì che le ho viste e sentite mille volte.
Una giornata come quella del 14 dicembre a Roma invece no.

I rimandi a scene del passato sono di nuovo soprattutto esorcismi e scorciatoie fuorvianti da una realtà che invece è viva oggi, nella propria diversità. Che è altro per mille motivi. Il primo, molto semplice: i protagonisti principali di questa giornata sono giovani e giovanissimi studenti e precari, non vengono dal passato. E la loro realtà non è la stessa di quaranta e nemmeno di dieci anni fa.

Ho assistito allo scoppio di una tensione e di una compressione sociale radicata e accumulata da tempo. Uno scoppio per certi versi prevedibile, ma sostanzialmente spontaneo, direi fisiologico, innescato, legittimato o compreso dal comune sentire della grande maggioranza dei partecipanti all’enorme manifestazione. Ho avuto la netta sensazione che questo scoppio abbia oltrepassato anche qualsiasi scaletta degli eventi della manifestazione che gli stessi gruppi organizzati maggiori presenti, gli stessi organizzatori della giornata di mobilitazione, potessero aver programmato.

La straordinaria novità della giornata romana, nella sua complessità, nella sua non riducibilità a regie uniche, penso ci restituisca domande più che risposte. Più che giudizi di valore imposti dall’urgenza di separare il giusto e il non giusto, più che nette indicazioni di linea, pone di nuovo un nodo da sciogliere: come muovere nel tempo a venire un percorso politico capace di interpretare e raccogliere la rabbia e l’indignazione spontanee e diffuse esplose fragorosamente nella piazza del 14 dicembre.

Intanto rientriamo a Brescia, nel profondo dei territori padani. Viaggio di ritorno in pulman tranquillo, fortunatamente. Ho tempo per pensare che la rabbia sociale che ho visto scoppiare nella mobilitazione a Roma è in fondo anche la rabbia dei migranti, di prima e soprattutto di seconda generazione. E’ la rabbia finora in gran parte inespressa dai migranti, più difficile da esprimere per i migranti, ma forse anche più compressa e bruciante nei migranti.
Qui a Brescia la lotta per i permessi e contro la Bossi-Fini continua. Anche se è dura. La repressione è vera, pesante, vigliacca.

Torno a pensarci, e credo che a Roma i migranti di Brescia, almeno per un po’, si siano sentiti meno soli nella loro, nella nostra lotta contro la clandestinità. Sarà paradossale, ma davvero si sono sentiti più protetti e più forti in mezzo a quella mobilitazione, con tutta quella tensione attorno. Hanno potuto condividere un tratto di percorso con altri compagni di altre lotte, diverse ma comuni.
Sarebbe bello se non restasse un episodio. E’ importante che non resti un episodio.

E poi anche a Roma i migranti di Brescia hanno avuto conferma di quel che già hanno sperimentato da lungo tempo nella loro città: non sono i manifestanti per i diritti, nessun manifestante per i diritti, che i migranti devono temere. Non è da loro che si aspettano un’aggressione. Le persone in lotta per i diritti, al più, talvolta affrontano la polizia che sbarra loro la strada verso lo stesso diritto al dissenso. Come è stato scritto, è la polizia che invece finisce con l’aggredire chiunque quando reprime: uomini e donne, giovani e anziani, studenti e operai, manifestanti e passanti. Come in piazza del popolo a Roma.
E’ la polizia di Maroni che è sempre a caccia degli immigrati.

g.b.
Brescia, 16 dicembre 2010