Il primo giorno dell’anno per una famiglia di migranti a Brescia

Pontevico, sabato 1 gennaio 2011, pomeriggio. Un’autopattuglia dei carabinieri ferma per un normale controllo un’automobile con a bordo due uomini, una donna e un neonato, tutti senegalesi.

Nel corso del controllo dei documenti, uno dei due uomini risulta non avere un regolare permesso di soggiorno. Viene quindi condotto alla vicina stazione dei carabinieri. I carabinieri lo trattengono fino alla mattina di lunedì 3 gennaio, poi lo conducono presso la Questura di Brescia, competente sui provvedimenti di espulsione.

L’uomo si chiama Malik, ha 43 anni, da una decina vive in Italia. Svolge prevalentemente lavori precari in nero, quel che gli permette la sua condizione di irregolare. Lavora soprattutto come meccanico, è la sua professione.

Non ha mai commesso alcun reato. Nel settembre 2009 aveva presentato domanda di regolarizzazione attraverso la sanatoria per colf e badanti. Quando sabato 1 gennaio viene fermato dai carabinieri, Malik è ancora in attesa di risposta alla sua richiesta. La risposta gli viene data a voce dai carabinieri poco dopo il fermo. E’ una risposta negativa, la sua richiesta di regolarizzazione è stata respinta, gli dicono. Il motivo pare sia l’inottemperanza all’ordine del questore di lasciare l’Italia dopo che già precedentemente la polizia l’aveva trovato senza permesso di soggiorno. In altre parole, Malik non può regolarizzarsi perché quando ha presentato domanda di regolarizzazione era un irregolare. Così prescrive la circolare Manganelli del 17 marzo 2010.

Malik in Italia ha anche una moglie e un figlio. L’altro uomo che è con lui sulla macchina quando viene fermato dai carabinieri è un amico. La donna invece è proprio sua moglie. Si chiama Erka. Anche lei è senegalese, vive e lavora in Italia da 17 anni, ha regolare permesso di soggiorno. Malik e Erka si sono sposati in Senegal poco più di un anno fa. Il bambino che si trovava con loro in macchina quel sabato 1 gennaio pomeriggio a Pontevico è il figlio di Malik e di Erka. E’ nato circa due mesi fa. Una famiglia, con un figlio neonato.

Lunedì 3 gennaio la questura di Brescia, presso la quale Malik è appena stato trasferito, invia Malik nel Cie di Gradisca d’Isonzo. A Gradisca Malik viene recluso in attesa di espulsione, di deportazione nel Paese d’origine.
In sostanza: nemmeno il dato di fatto che in Italia Malik sia sposato e con un figlio di meno di sei mesi evita che venga attivato dai funzionari di polizia il dispositivo di esecuzione dell’espulsione tramite reclusione nel Cie di Gradisca.

Tuttavia questo modo di procedere è una palese violazione delle stessi leggi italiane, secondo le quali un immigrato, anche senza regolare permesso di soggiorno, non è espellibile se padre di un neonato che abbia meno di sei mesi. E infatti Malik nella serata dello stesso lunedì 3 gennaio viene rilasciato dal Cie di Gradisca, proprio perché, sulla base di quanto riscontrato dal giudice di pace, non esistono i presupposti di legge per la sua detenzione.

Ma l’episodio rimane grave e odioso. Ci domandiamo perché si sia verificato. Come e perché sia avvenuta questa palese violazione, o inadempienza, rispetto ad una procedura di legge, da parte di carabinieri e polizia. Così pare si giustifichino le forze dell’ordine: il trasferimento al Cie di Gradisca per l’espulsione è avvenuto a causa di un errore, un errore dovuto alla non conoscenza della paternità di Malik. In verità non è facile capire come polizia e carabinieri possano non venire a sapere, con tutti gli strumenti che hanno a disposizione, che un uomo sposato che intendono deportare in Senegal è padre in Italia di un figlio di pochi mesi. Tanto più che Erka, la moglie di Malik, sostiene di avere avvisato i carabinieri e anche di avere consegnato loro le certificazioni utili a comprovare la paternità di Malik.
Di sicuro, prima i carabinieri e poi la questura di Brescia non si sono preoccupati di approfondire il quadro della situazione di Malik prima di dare rapida esecuzione alla reclusione nel Cie e al provvedimento di espulsione. Malik stesso aggiunge al racconto che dopo il trasferimento in questura – dove lunedì mattina ha trascorso pochissimo tempo prima del viaggio verso il Cie di Gradisca – praticamente nessun poliziotto gli ha rivolto la parola o chiesto alcunché.

E’ evidente, anche al di la della testimonianza di Malik, che le forze dell’ordine hanno proceduto ad un provvedimento di reclusione ed espulsione con un inammissibile livello di superficialità, di approssimazione, di disattenzione, nel verificare la situazione di questa persona.

E’ sufficientemente chiaro che non è possibile derubricare l’episodio capitato a Malik e alla sua famiglia nella semplice categoria degli errori, delle cose che possono capitare, per quanto siano spiacevoli e comunque dolose. Perchè in effetti questa vicenda rivela anche altro: un malinteso senso dell’efficienza da parte dei funzionari delle istituzioni. Un senso dell’efficienza che mette sopra a tutto l’obbiettivo di procedere alle espulsioni, o ai provvedimenti di detenzione nei Cie. Un senso dell’efficienza che mette al centro l’obbiettivo di porre costantemente sotto pressione e sotto controllo i migranti. Un obbiettivo da perseguire applicando la legge Bossi-Fini e il pacchetto sicurezza dell’agosto 2009, ma anche, al limite, forzando e baypassando (a volte con successo, altre volte no) altre normative e procedure, che sono magari normative e procedure di garanzia per i migranti, tali da arginare in una qualche misura l’applicazione della Bossi-Fini e del pacchetto sicurezza. Normative e procedure di garanzia che proprio per questa loro funzione, sulla base delle direttive provenienti dal potere politico (anzitutto il ministero degli Interni) sempre più sembrano essere intese dai funzionari degli apparati addetti all’ordine pubblico come inciampi, come ostacoli nel conseguimento del vero obbiettivo, appunto l’esecuzione dei provvedimenti di espulsione, di repressione, di controllo nei confronti dei migranti.
La stessa frequenza con la quale si verificano errori come quello subìto da Malik, delle forzature nell’applicazione della normativa sulla detenzione e sulle espulsioni, porta a pensare che non soltanto di errori si tratti. Per esempio anche a metà dicembre scorso, nel caso dei provvedimenti di dentenzione nel Cie di Modena assunti contro Noureddine e Andrej, due protagonisti della lotta di Brescia contro la sanatoria truffa, si era verificato uno scavalcamento della procedura legale corretta.

In tutti i casi lo scenario è lo stesso, è lo scenario della caccia all’immigrato irregolare, caccia tanto più mirata quando si tratta di migranti colpevoli di lottare per i diritti.

Anche la vicenda capitata a Malik e alla sua famiglia, segnala una situazione generale, di contesto, esistente in particolare a Brescia, la città della battaglia della gru. Segnala che la caccia agli immigrati è ai primi posti nell’agenda politica degli amministratori locali e del ministro degli Interni, e che è stata collocata ai primi posti anche nell’attività operativa dei funzionari di polizia e carabinieri. Per esercitare una pressione costante e pesante nei confronti dei lavoratori immigrati, per mettergli paura, per tenerli sotto il ricatto dei controlli e del rischio concreto di espulsione.
Il tutto avviene attraverso l’applicazione di leggi come la Bossi-Fini e il pacchetto sicurezza dell’agosto 2009, che sono la fonte prima dei provvedimenti discriminatori verso gli immigrati.

E’ questo lo scenario, il contesto, da tenere ben presente, perché senza di esso tutto diventa poco chiaro, le discriminazioni e gli abusi subiti dai migranti si trasformano in casualità e destino. Senza quel contesto non potrà trovare piena spiegazione, persino dopo che sarà stato reso noto l’esito dell’autopsia, nemmeno la morte di El Hady, l’uomo senegalese che il 10 dicembre 2010 è entrato vivo in una caserma dei carabinieri e il 12 dicembre ne è uscito morto, dopo essere stato trattenuto per due giorni soltanto perché non aveva più il permesso di soggiorno.

Dentro questo contesto le questioni poste dalla lotta per la regolarizzazione e contro la clandestinità sono ancora tutte lì, aperte, irrisolte, da agire. Lo stesso decreto flussi 2010 è assolutamente inadeguato a rispondere alla forte domanda di regolarizzazione. Alla volontà di lotta alla clandestinità e al peggior sfruttamento. Una lotta i cui prossimi appuntamenti i migranti e gli antirazzisti andranno a definire presto.